I misteri della Natività: il furto è solo l’ultimo

Un articolo di Sergio Troisi, pubblicato su “la Repubblica” Palermo dell’1 luglio 2021, recensisce il saggio di Michele Cuppone “Caravaggio, la Natività di Palermo. Nascita e scomparsa di un capolavoro”

Di sicuro c’è solo l’autore, Michelangelo Merisi da Caravaggio, il gran lombardo, visto che l’autografia, almeno quella, non è stata mai messa in dubbio. Per il resto, per la Natività già nell’oratorio di San Lorenzo, anche al netto del furto e del suo destino precipitato nell’ombra, i dubbi prevalgono sulle certezze: il luogo e la data di esecuzione, il committente, l’identità dei personaggi raffigurati, persino la data esatta del trafugamento presentano infatti interrogativi ora riepilogati e messi in ordine da Michele Cuppone, che a Caravaggio ha dedicato articoli e monografie oltre che un visitatissimo blog, in un volume (“Caravaggio. La Natività di Palermo. Nascita e scomparsa di un capolavoro”, Campisano Editore, pagg. 128, €30) che ripercorre tutte le questioni che si sono circolarmente addensate sul dipinto talvolta ritornando intatte anche a distanza di molti anni. Per dirne una: l’ipotesi che l’opera sia stata smembrata in più frammenti per meglio piazzarla sul mercato clandestino, l’ultima clamorosa notizia in ordine di tempo sulla sorte della tela, era già stata avanzata all’indomani del furto da Giuseppe Bellafiore, al tempo presidente della sezione palermitana di Italia Nostra, sulla base di operazioni messe sciaguratamente in pratica in casi consimili.

Per la datazione della Natività, se eseguita nel 1609 a Palermo al temine del suo drammatico soggiorno siciliano come si affermava tradizionalmente sulla scorta dei primi biografi seicenteschi, Giovanni Baglione e Giovanni Pietro Bellori, o a Roma intorno al 1600, come suggerirebbero alcune considerazioni stilistiche e non solo, le ricerche recenti condotte da Giovanni Mendola hanno provveduto a individuare una rete di relazioni tra Roma e Palermo proprio in quel giro di anno tale da rendere più che plausibile l’esecuzione romana; manca certo la pistola fumante, un contratto o un documento di pagamento, ma i rapporti tra mercanti, confrati dell’Oratorio e un personaggio palermitano di rilievo quale Mariano Valguarnera compongono un quadro indiziario quanto mai suggestivo e articolato. A questo si aggiungono le tipologie delle figure, il confronto tra il volto di Maria e quello della quasi coeva Giuditta nel dipinto ora a Palazzo Barberini, la tavolozza di colori vivi così distanti dalla vasta penombra cupa dei dipinti siciliani, persino il tipo e il taglio di tela adoperati, tipici degli anni romani e senza riscontro invece nei dipinti in Sicilia. Cuppone propone così, sia pure con riserva, di riconoscere nella Natività il dipinto “con figure” (senz’altra specificazione) commissionato a Caravaggio il 5 aprile del 1600 e altrimenti non identificato: se fosse così, la tela per San Lorenzo sarebbe in assoluto la prima pala d’altare della produzione dell’artista, in quegli anni impegnato nei quadri laterali della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi e subito della cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. La si guarda allora — la si guarderebbe — con occhi differenti, come un dipinto cerniera nell’intera attività di Caravaggio.

Quindi i personaggi: su San Lorenzo a destra, in dalmatica gialla, nessun dubbio; ma è San Giuseppe il personaggio canuto, ma dal giovanile corpo scattante e dalle gambe muscolose, inquadrato di spalle, accanto agli attrezzi del mestiere, di fronte a Maria stremata e gaudiosa che, seduta per terra come si conviene a una Madonna dell’Umiltà, contempla il figlio, o non sarà piuttosto il vecchio poggiato a un bastone a sinistra, come qualcuno ha ipotizzato? E altrimenti, chi è questa figura che tiene il cappello ben calcato in testa, forse un pastore? E se quel santo è San Francesco, perché alcuni dettagli dell’abito non coincidono con quelli canonici (ma i restauri precedenti l’esposizione alla grande mostra milanese su Caravaggio del 1951 hanno evidenziato sulle mani delle tracce che coinciderebbero con stimmate), così da portare qualcuno a pensare a Frate Leone, compagno di Francesco, se non addirittura a un frate palermitano? In realtà analoghe diversioni iconografiche non sono rare in Caravaggio, e Cuppone propende quindi per assegnare ai personaggi l’identità tradizionalmente tramandata.

E poi, naturalmente, c’è il mistero principe, il furto, scoperto sabato 18 ottobre 1969, perpetrato forse nella notte tra il 17 e il 18 ma forse anche prima, considerato che l’ultima volta che il dipinto fu visto con certezza al suo posto era stata la domenica precedente, giorno in cui nell’oratorio si celebrava Messa, il 12 ottobre dunque. Cuppone ripercorre tutte le ipotesi investigative, molte delle quali, tra le tante smentite e le molte leggendarie, nel frattempo divenute ragionevole certezza: la facilità irrisoria con cui i malviventi, mafiosi di piccolo rango tra cui Pietro Vernengo, penetrarono all’interno dell’Oratorio, la tela arrotolata e caricata su una Mercedes, il primo nascondiglio in una fabbrica del ghiaccio tra Corso dei Mille e Brancaccio, la presenza a Palermo in quei giorni ( ne dà notizia la stampa nei giorni immediatamente successivi) di un misterioso antiquario che avrebbe anche accusato i delinquenti di avere rovinato incautamente il dipinto, l’interessamento dei livelli più alti di Cosa Nostra nelle persone di Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti che avrebbero preso direttamente in consegna l’opera. Poi, come si sa, voci e piste si moltiplicano, si intrecciano, si confondono e svaniscono. L’ultima traccia certa è un documento inedito che Cuppone pubblica in coda al volume, una lettera dell’allora soprintendente Vincenzo Scuderi all’allora maggiore dei carabinieri Giuseppe Russo (assassinato poi a Ficuzza nel 1977), datata 27 luglio 1974, da cui si capisce che contatti e trattativa sono in corso e passano per le mani di monsignor Benedetto Rocco, rettore dell’Oratorio che ai tempi del furto alloggiava nei locali superiori.

La rassegna stampa dei giorni del trafugamento, a cui le testate nazionali danno vasta eco, raccolta da Cuppone in appendice è un’altra documentazione interessante del contesto dell’epoca in cui il patrimonio artistico del centro storico versava in generali condizioni di abbandono: da una inchiesta del Giornale di Sicilia si evince per esempio che, in contrasto con la sua notorietà attuale, il dipinto era poco conosciuto dai palermitani, e non soltanto dal grande pubblico: tra gli intervistati — docenti universitari, avvocati, dirigenti pubblici — qualcuno ne aveva un ricordo sommario, qualcuno ne sconosceva addirittura l’esistenza, solo pochissimi si mostrano consapevoli della sua importanza. Almeno in questo senso, i cinquant’anni abbondanti che ci separano da quella sparizione angosciosa non sono trascorsi invano.